Viaggio nel vino
Quando, conoscendo la sua passione, alcuni giorni fa affidai ad un'amica, di professione ristoratrice, un articolo
sull’odierno “significato” della parola vino, confesso che non mi sarei
aspettato un dossier di ben 38 cartelle. Tuttavia, da amante del vino quale
anch’io sono, condivido la necessità di fare chiarezza dentro un mondo che,
recentemente, si è complicato anche (soprattutto?) quanto a lessici, fra vini
biologici biodinamici naturali resilienti ancestrali...
L’associazione
Genova World, di cui ho l’onore d’essere il direttore scientifico, s’interessa
eccome a tale mondo. Le ragioni sono molteplici, ma mi limiterò a quattro.
Anzitutto, costituiamo un sodalizio che milita in difesa del buonessere, dei
prodotti puliti, delle qualità certificate, delle filiere brevi, per concorrere
ad un’immagine della Liguria e di Genova sempre più performante in termini di
genius loci e di turismo esperienziale.
In secondo
luogo, Genova si pone come città-emporio storicamente (in un certo senso fin da
epoca protostorica/etrusca…) interessata alle compravendite di vino, pare
addirittura che l’espressione “cancarön”
(vino scadente) origini da un import di vino di fichi turco, che verosimilmente
non riscosse grandi consensi (per altre teorie etimologiche che “navigano” ad
es. dalla Sardegna si veda però http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/vino/Toso.html).
Genova
si pone inoltre come luogo di vigne urbane: si pensi alla Basilica appunto
delle Vigne, evidentemente l’antica area su cui insiste l’edificio religioso,
un tempo extra moenia, ne era
punteggiata (e vi avvenne un’apparizione
mariana); sulla facciata il piccolo portale di destra ospita, in un affresco secentesco del Piola, una Madonna la quale
sostenendo il proprio figlio regge tra le mani anche un ricco grappolo d’uve bianche (e l’elemento della vite torna anche altrove).
Infine, last but not least, il territorio di Genova è
interessato dal torrente Polcevera, il quale dà il nome ad una valle (malgrado
i salumi non “purcifera”) famosa per i propri vini a denominazione d’origine
controllata, fra cui la Bianchetta e il (sottozona) Coronata, ricordo che mio padre,
sampierdarenese, lo nominava quasi ogni volta che percorrevamo da est a ovest Ponte Morandi.
Vorrei affidare a quest'amica ristoratrice un articolo sul vino perché - mai
come oggi - occorre bere (e mangiare) bene e poco, occorre distinguere
consapevolmente fra prodotti che valgono e prodotti che usurpano ai vocabolari
il proprio nome. Nei miei lunghi viaggi – e scritti - dentro al vino non ho mai
bevuto etichette, ovvero non mi sono mai lasciato condizionare dal marketing,
che sovente concorre in maniera predominante a posizionare un brand. Mi sono
capitati, nei bicchieri, celebri e costosi Merlot che mi hanno deluso, così
come ho adocchiato sugli scaffali del supermarket Primitivi di Manduria
meravigliosi (circa 9 euro la bottiglia). Non ho nulla (anche se tento di assumerne il meno possibile) contro i solfiti, a
condizione che l’intera nostra giornata alimentare non si trasformi in una sessione
de “il piccolo chimico”, tra confezioni di prodotti dei quali – mentre volano uno
dopo l’altro nel carrello - non riusciamo nemmeno ad inquadrare correttamente
tutti gl’ingredienti.
Si suol dire che il giusto vino perfezioni il piatto, e
viceversa (in effetti i matrimoni d’amore implicano sempre 2 partner concordi).
A Livorno hanno abbinato al mio cacciucco (raccomando le 5 “c”!) un
sorbevolissimo Morellino di Scansano, ergo un rosso col pesce. In Friuli hanno
sposato al mio prosciutto crudo una magistrale Ribolla gialla, ergo un bianco
col maiale. Ma chi percorra la Francia sa bene che le ostriche incontrano gli
Champagne ma perfino i Sauternes, e riesce difficile immaginare lontananze
maggiori di quella che separa i metodo classico dai botritizzati… Vorrei dunque
concludere questa breve "premessa" semplicemente
affermando che il vino è piacere, ovvero una sensazione che i nostri apparati
percettivi colgono con immediatezza, lasciando solo in un secondo tempo lo
spazio per la concettualizzazione.
Dai loro esordi, i vinificatori duri e puri hanno
infinitamente migliorato le proprie capacità produttive, mentre all’inizio le
loro creazioni risultavano perfette più che altro per rappresentare in un corso
di formazione tutti i possibili difetti del vino (quante “sfide” con l’amico
Gianni Bruzzone del “Baccicin du Caru” a Mele!...). Se la strada intrapresa
saprà sempre più coniugare, ma senza snobismi, “pulizia” agro-produttiva e
gradevolezze organolettiche, allora avremo fornito un buon servigio ad una
causa meritoria. Ad una causa conviviale (come a dire: guardatevi dai guru).
Umberto Curti
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