Focaccia genovese con pasta madre



Scrive il giornalista-scrittore sammargheritese Vittorio G. Rossi, in Maestrale, 1976:
"Il mio fornaio ha una parte importante nella mia vita spirituale, più di tanti libri che ho letti e non mi hanno dato niente, non sono riusciti a diventare me; sono rimasti libri. La focaccia del mio fornaio ogni mattina è come una cosa nuova, come devono essere le cose che non restano fuori ma entrano dentro; come una donna che si ama; e ogni mattina la focaccia del mio fornaio diventa me. Essa è la nostra focaccia ligure, niente a che fare con le pizze cosparse di condimenti; essa è una delle cose più semplici che ci sono, semplice come l'acqua di sorgente; è pasta di farina, sale, olio; è cotta nel forno, su una lamiera di ferro rettangolare; ha lo spessore di un dito mignolo, anche di meno. Con la punta delle quattro dita lunghe di una mano, il fornaio la copre di buchi; in essi si raccoglie l'olio di oliva, come le lacrime di un pianto, ma è un pianto di gioia. La focaccia bisogna mangiarla appena esce dal forno; allora brucia le mani; ha tutto il suo olio vivo, sano e caldo; la carta bigia e porosa che accoglie il prodigioso rettangolo si imbeve subito di olio; e bisogna mangiarla camminando lentamente, come se si pensasse alla fondazione del mondo, e non si deve pensare a niente, solo alla focaccia che si sta mangiando. E se si è in vista del mare, è meglio ancora: allora la focaccia si condisce anche di mare. E per questo bisogna mangiarla da soli, senza nessuno accanto, neanche il più grande amore; un etto e mezzo di focaccia può sostituire nella storia di un uomo molte cose spirituali, almeno a quell'ora del giorno"…
E ancora:
“Quando c’era la Novena dei Morti, mia madre ci portava alla novena; era ancora notte, non c’erano neanche i primi segni dell’alba; si usciva nell’aria fredda di novembre, gli occhi pieni di piombo, alzarsi dormendo, fare i primi passi dormendo, imbattersi in quell’aria, sentire come una ferita e poi entrare nella chiesa coi lumi e le preghiere. E poi lei ci portava nel forno appena aperto, c’era la “focaccia con le polpe”. Era calda, nerastra, piena d’olio; c’erano dentro i piccoli pezzi di polpa di olive spremute nel frantoio e adesso ogni tanto mi tornano quelle mattine buie di novembre, quella luce tremolante che faceva chiaro ai morti e il sapore oliato e caldo della focaccia, e mia madre che amministrava quelle nove mattinate di cerimonia funebre, e riuniva i vivi e i morti, e le preghiere e la focaccia, come se tra il mondo di là e quello di qua lei sapesse, senza dubbio alcuno, quello che c’era, e come bisognava comportarsi”.

Il 21 novembre d’ogni anno molti scrivono di focaccia genovese, ed io non posso che esserne lieto. Alle farine, ai lieviti, agli olii e alla focaccia genovese, infatti, ho dedicato ormai decenni della mia attività professionale, libri articoli eventi video (ad es. clicca qui).
Eccoti oggi, amico lettore, una mia ricetta di focaccia genovese con pasta madre (senza lievito di birra). Come vedrai, i preimpasti si incorporano nella misura del 30% circa rispetto al peso totale del lavorato. Questo metodo definito “indiretto” (pasta da riporto, poolish, biga, pasta madre, li.co.li…) ottiene prodotti più alveolati, soffici, fragranti, digeribili, duraturi, e in questo caso eliminerai del tutto il lievito di birra e le farine ‘00’ e manitoba. Nella pasta madre, in estrema sintesi, sono presenti microrganismi e batteri lattici che tramite la produzione di anidride carbonica consentono infatti la lievitazione più “naturale” (F=M+L). L'utilizzo di questo lievito, non a caso, è noto sin dall'antichità, e anche il pandolce genovese più antico è, malgrado molti credano il contrario, quello alto (il basso è di fatto una pastafrolla ottocentesca, ottenuta coi baking di Liebig…).
Una ricetta di focaccia, dunque, che presumo piacerebbe a Gabriele Bonci e a quelli come lui, e che ti invito a sperimentare (poi raccontami l’accaduto e scambiamoci consigli). La focaccia genovese, infatti, non ha segreti, aborre i guru, chiede solo ingredienti di qualità e molta pazienza, provando e riprovando si mettono a punto le molte variabili in gioco...


Fai la spesa: 400 g farina ‘1’ di media forza, 260W * , macinata a pietra (se ti servono suggerimenti circa le marche migliori, scrivimi); 220 ml acqua fredda (almeno 55% sul peso della farina); 250 g pasta madre matura (rinfrescata a sera per la mattina; il pH di una buona pasta madre è 4,2); chi predilige il li.co.li. ne impieghi circa 200 g e aggiunga 50 g di farina; 10 cucchiai olio evo delicato (circa 80 ml); 7 g sale marino integrale; sale grosso qb.

Per le dimensioni delle teglie (ne esistono varie), considera che mezzo chilo d’impasto richiede indicativamente 25x40cm; quelle classiche dei panifici misurano 40x60cm.

Mettiti all’opera: lavora accuratamente in planetaria, con la frusta piatta o poi col gancio, la pasta madre e l'acqua fredda (chi ha pratica può certo lavorare manualmente dentro un’ampia ciotola di vetro…). Quando l’impasto sarà ben lento incorpora una parte di farina e per ultimi 5 cucchiai d'evo, proseguendo a bassa velocità. Aggiungi a questo punto la residua farina e il sale, amalgama (l’impasto sarà morbido e “colloso”), e lascia lievitare 3-6 ore in forno spento a sportello chiuso, sin quando non vedrai che abbia quasi raddoppiato il volume (un ambiente caldo e umido evidentemente agevola le lievitazioni, e un ambiente freddo e secco le ostacola**). Riprendi l’impasto, che aveva raggiunto il proprio “punto pasta”, ponilo su un piano di lavoro un poco infarinato, forma un rettangolo e rinforzalo piegandolo in tre su se stesso per una-due volte, e lasciandolo poi riposare in forno altri 40 minuti (più è forte la farina meno servono le piegature). Stendilo, aiutandoti semmai con l’avambraccio, in una “lamma” a bordo basso, già unta, senza tirarlo, pressando delicatamente verso i bordi e prevedendo uno spessore di circa 1/2 cm abbondante, e consentigli infine di lievitare ancora 1’ora. Riscalda il tuo forno a 240°C. Unisci diamantini di sale grosso e mezzo bicchier d’acqua cospargendo poi l’intera superficie, ricava energicamente coi polpastrelli distanziati, o con la seconda falange, alcuni avvallamenti (ömbrissalli), vicini tra loro, ungi col pennello la focaccia dell’evo rimasto, e cuoci in forno statico sul ripiano basso per 18-20 minuti circa (ma ciascuno conosce il proprio forno), fino a cottura ottimale. Sfornandola, stacca la focaccia dalla teglia con una paletta piatta e rovesciala su una gratella così che l’aria sottostante impedisca che si ammolli, e ungila ancora con evo. Poi, con un coltello adatto, ottieni strisce di circa un etto (o “slerfe” di due…), per rendere onore alla regina dei finger food, dei cibi di strada da “angiporto”… Se occorre potrai congelarla, in sacchetti, poi la scongelerai a temperatura ambiente e la scalderai preferibilmente nel tostapane. A Genova e Liguria peraltro – come forse sai - v’è chi la mangia più cotta chi meno, chi più spessa chi più sottile, chi più salata chi più sciapa, chi più unta…, difficile mettersi sempre d’accordo. Ma sulle fossette convengono proprio tutti, perché quel che vi si deposita crea un differenziale di cottura, e il gusto è ghiottissimo. L’abbinamento più “local” è comunque di mattina il cappuccino, e poi – dall’aperitivo alla cena - un Vermentino, o una Bianchetta, da servire a 10-11°C in tulipani a stelo alto. Scignuria (se desideri altre notizie storiche ecc. clicca qui).
* poiché non tutte le confezioni riportano il W della forza, puoi controllare le proteine nella tabella nutrizionale, in quanto "direttamente" proporzionali. Ovviamente, l'industria e i laboratori monitorano farine e impasti tramite specifici strumenti, fra cui l'alveografo di Chopin e il farinografo di Brabender (clicca qui per approfondire le differenze tra i due)
** la luce accesa alza ovviamente la temperatura...
Umberto Curti, direttore scientifico di "Genova World"

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