Ponti ricostruiti
corzetti valpolceveraschi |
«La Polcevera forma una valle,
che può dirsi vasta, considerate le angustie della Liguria; ma che per numero
di abitanti, per commercio, fertilità di suolo e numero incredibile di
palazzi e belle case di campagna, oltre la salubrità dell'aria, non ha
paragone». G. Casalis, Dizionario geografico, storico, statistico e
commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, vol. VII, 1840 |
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Di val Polcevera mi sono
ripetutamente occupato, per così dire sin da quel “Il cibo in Liguria dalla
preistoria all’età romana” (ed. De Ferrari, 2011) nel quale chiarii che questo territorio, pur ricco
oggi di salumi, non si lega come nome ai suini (“porcifera” è uno pseudoamico,
caro ad alcuni presunti etimologisti).
Archeologi (ed archeogastronomi)
sanno che il torrente ab antiquo fu chiamato Porsena (Antonino il Pio?), ma
anche Purcifera, Porcifera, Pulcifera (latino medievale), Porçevola, Porcevera,
Porcobera (Tavola Bronzea del 117 a.C.) o Procobera quale forma riconducibile
all’osco-etrusco (1), risultato dell'abbreviazione di por=portare, e
sena=fera=verace. L’enciclopedista Plinio il Vecchio utilizza dunque il termine
Porcifera, tuttavia nel senso di “portatore di verità”. Secondo altri, l’idronimo
alluderebbe ad un torrente portatore di pesci (trote…), o zolle (dal
celto-ligure). Dal ‘600 e ‘700 si diffusero anche Pozzevera e Polzevera.
Intorno alla metà del II secolo
a.C. (149 a.C.) attraverso la val Polcevera fu aperta la Via Postumia che da Genova scavalcava l'Appennino giungendo a Libarna (presso l'attuale Serravalle Scrivia). Fin dall'età longobarda lungo
tale asse operarono i monaci della florida abbazia colombaniana di Bobbio,
scriptorium che aggregò agronomi e speziali. Molto frequentata fu poi, almeno a
datare dal medioevo, la cosiddetta “via del sale“, che dalla val Bisagno conduceva
in alta val Polcevera superando il valico di Trensasco e che valicava
l'Appennino presso la Crocetta di Orero.
La val Polcevera, una cui
porzione ricade sotto il Comune di Genova, è ricca di risorse storico-culturali
e ambientali. A puro titolo d’esempio, senza pretesa di completezza, Palazzo
Durazzo Bombrini a Cornigliano. I santuari di Coronata, della Guardia, della
Vittoria e del Garbo. Il monastero di San Bartolomeo della Certosa a Rivarolo. L’abbazia
di San Nicolò del Boschetto affacciata su corso Perrone. Il bell’esempio neogotico
di dimora in stile Tudor di Villa Serra a Còmago. Il trenino di Casella, che
lungo il panoramico tragitto (ad un passo da alcuni forti) traversa Sant’Olcese
e una piccola parte di Serra Riccò. Il sentiero botanico di Ciaè, a Ronco di
Sant’Olcese. Il Museo delle Marionette in Palazzo Balbi a Campomorone. Resti di
mulini e macine. Quattro tappe dell’Alta Via dei Monti Liguri. Palestre di
arrampicata...
La ruralità donava e in parte
dona cereali, uve, fave, castagne, frutta di varie specie fra cui pregiate
pesche. E l’attività molitoria favorì a suo tempo la crescita di pastifici
artigianali, cui si dovè anche la perpetuazione di prodotti quali i celebri
“maccheroni” di Natale, quelli che i genovesi mangiano in brodo il 25 dicembre.
Oggi l’enogastronomia sciorina anzitutto i celebri corzetti valpolceveraschi
(tirati con le dita, a forma di 8), il salame e la mostardella di Sant’Olcese, i
vini della DOC, fra i quali un’eccelsa Bianchetta (clicca qui) e un intenso rosso,
denominato “Trei paexi” (uvaggio di ciliegiolo, dolcetto e barbera) in quanto
le vigne di raccolta insistono in tre paesini dell’alta valle.
Ecco perché, amico Lettore, il nostro panino “BigPra’” abbina all’hamburger di cabannina la val Polcevera. Perché un vino (un cibo) racconta cultura, e perché la cultura è per propria natura convivio. Ciò di cui anche la val Polcevera, così ricca di patrimoni del paesaggio, dell’heritage e del gusto, ma anche così colpita da sciagure e crisi, ha bisogno, per una ripresa socioeconomica che non può e non deve più tardare.
(1) un ramo delle lingue indoeuropee, secondo molti
Umberto Curti, direttore scientifico di Genova World
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