CIBO FRA LE ONDE: una ristoratrice racconta (parte 1)


Ianuensis ergo piscator...
A ridosso dell’omonimo incontro in diretta streaming on line nel corso del Festival della scienza, e tuttora visibile on demand fino a fine 2020, relatori Paola Minale e Umberto Curti, che ringrazio per avermi “chiamata in causa”, mi piace esprimere, a mia volta, un particolare punto di vista: quello di una ristoratrice e della sua équipe.
Fermo restando che il nostro locale si trova tuttora fra le onde -e non mi riferisco solo a quelle violente e impietose della mareggiata 29-30 ottobre 2018, che lo hanno letteralmente devastato, ma anche alle ricadute presenti e future dell’ondata Covid- il tema delle onde, nonostante tutto, continua ad affascinare anche me…
Ed affascina non soltanto perché nel nostro locale il cibo viene servito pressoché “pieds dans l’eau”, ma anche perché, dalle onde, molto nostro cibo deriva.
Preciso che servire i piatti in tale contesto non è -né è mai stato- un nostro merito ma una semplice circostanza del luogo che, a dir la verità, piuttosto che avvantaggiarci ci ha creato spesso dei problemi: e mi riferisco alla difficoltà di servire una materia prima pregiata ma delicata e deperibile come il pesce, in un ambiente sostanzialmente selvaggio ed imprevedibile perché aperto e, in quanto tale, costantemente soggetto a intemperie: con tutte le difficoltà logistiche del caso ma anche, sia chiaro..., in tutta la sua infinita bellezza.
Bellezza, un raggio di sole o un odore salmastro che si “sovrappone” alle pietanze fresche, ecco quel che non ci fa rimpiangere l’auspicata (e spesso invidiata) serenità di un confortevole (e invulnerabile) locale al chiuso, dove la mise en place rimane perfetta, senza doverla mai controllare, ripassare o asciugare.
Serenità che, beninteso, ci consentirebbe (finalmente) di programmare meglio le attività, il personale e gli acquisti, traguardando ciò che il mercato (e i corsi di formazione) attualmente richiedono...la standardizzazione più sicura del lavoro.
Ma il lavoro (e la programmazione) di un ristorante sul mare sfugge di continuo fra le mani, non diversamente da un pesce: soprattutto quando è fresco, turgido e scivoloso, con buona pace di ogni avventore che pretenda il massimo della qualità nel minor tempo possibile e, manco a dirlo, con la minore spesa. Non avrà costui avuto, evidentemente, dei genitori in grado di insegnargli che “presto e bene, raro avviene”…
Ma veniamo al concreto, a “freschezza” e “qualità” degli acquisti, nonché alle “tecniche gastronomiche” e vediamo cosa succede all’interno della cucina di un ristorante.
Prendendo spunto dalla conferenza Curti-Minale, se è vero che – come tutti sanno - ogni ristoratore deve padroneggiare la tabella allergeni così da relazionarla al proprio menù, occorre ricordare che essa non è un elenco definitivo bensì sempre un work in progress, su cui il ristoratore si deve periodicamente aggiornare, in base all’evoluzione degli studi scientifici.
Per citare un esempio: la colla di pesce, che può essere utilizzata per una “innocua” e apparentemente “non ittica” panna cotta, e che qualche tempo fa non appariva neppure fra gli allergeni, contiene all’interno, come precisa Paola Minale, una proteina, il collagene di pesce, che può costituire, per alcuni soggetti predisposti, motivo di allergia.
Va detto, a onor del vero, che ciò che viene definito commercialmente “colla di pesce” è in realtà costituito nel 90% dei casi da un collagene derivante da suino: va quindi verificato, all’interno della scheda tecnica dello specifico prodotto, e prima d’inserirlo a menu, l’elenco degli ingredienti che effettivamente lo compongono.
Considerando, d’altra parte, le reazioni avverse non allergiche, derivate dalle cosiddette sostanze diverse presenti all’interno del pesce, è stata Marina Santini, dell’Università di Genova, a delucidarci in merito alla contaminazione da mercurio, effettivamente assai presente nel fondale mediterraneo e che rilascia a sua volta, nel mare stesso, il metilmercurio (ossia mercurio che viene metilato dal benctos, particelle organiche di cui i pesci si nutrono), una sostanza neurotossica la quale, attraverso la catena trofica, arriva finalmente all’organismo umano.
Questo tipo di tossicità di determinate specie ittiche (ne sono coinvolte acciughe, triglie, pesce spada, tonno, carne di squalo) è comunque connessa ad una presenza interna di selenio (un altro metallo -in questo caso positivo- che “attutisce” gli effetti del metilmercurio), al territorio di provenienza, e alla dimensione del pescato.
Apprendiamo quindi che il selenio contenuto nell’acciuga (che si può mangiare fino a tre volte la settimana) è maggiore di quello della triglia (consigliata una volta la settimana) che, pur piccola, è un pesce cosiddetto pelagico e quindi soggetto a maggiore contaminazione, o del pesce spada e del tonno che, pelagici anch’essi, presentano una tossicità vieppiù elevata.
Però il Mar Ligure, meno pescoso del Mare Adriatico (donde il maggior costo del nostro pescato) è fortunatamente meno soggetto al metilmercurio: consigliatissimo quindi, per chi viva nella nostra difficile ma meravigliosa regione, il consumo di pesci locali e di piccola taglia, seppur (ci permettiamo di ricordare) all’interno del range dimensionale consentito dalle vigenti normative legate alla sostenibilità ambientale della pesca, e tenendo conto di altre due grandi discriminanti che intervengano eventualmente: quella tra pesce d’allevamento (acquacoltura in ambiente controllato) e pesce selvaggio (catturato in acque aperte).
Questa, in buona sostanza, la base imprescindibile, per cosi dire l’abc, di ogni alimentarista, e gourmet, che voglia definirsi tale ma se, e qui entriamo nell’ottica del ristoratore, in tutto ciò viene a mancare la freschezza…ciascuna delle riflessioni precedenti s’azzera e ci ritroviamo all’interno di una nuova, ma non meno grave, criticità: l’intossicazione sgombroide da “pesce non fresco”, che produce istamine.
Redazione di "Genova World"
A questo link la "puntata" n. 2

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