Cibo fra le onde. Una ristoratrice racconta (parte 8)
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Preziosissima colatura di alici, figlia del garum e sorella del machetto |
A questo link la "puntata" n. 1, da cui lanciare anche le successive
A conclusione, non posso non accennare, per quello che mi compete, ad un altro aspetto fondamentale
riguardante il consumo di pesce: accanto a quello selvaggio infatti, vissuto
liberamente e pescato in mare aperto, vi è pesce allevato,
proveniente dalla cosiddetta acquacoltura. Ancora una volta, devo ringraziare il Primo Maresciallo Alessandro Folliero che non ha mancato, neppure in
quest’ultimo caso, di mettere a disposizione la sua comprovata competenza.
Per quel che riguarda l’alimentazione e i mangimi del pesce, Folliero riconosce che, a differenza dell’allevamento a terra dei
polli e del bestiame in genere, già ampiamente collaudati, il settore acquacoltura, relativamente recente, è tuttora poco regolato, anche se negli
ultimi anni c’è stata un’implementazione normativa: poche quindi, anche
in conseguenza di ciò, sono le visite sul campo da parte degli organi
di controllo.
Ma, al di là dei mangimi, uno dei temi più scottanti permane notoriamente quello degli antibiotici che, strettamente
connessi all’ambiente in cui vive il pesce, sorta di campagna di prevenzione a
prescindere dall’insorgere o meno di determinate malattie, vengono schedulati a precise scadenze temporali.
A determinare la differenza fra la quantità e la periodicità
degli antibiotici ingeriti dal pesce, tuttavia, interviene la tipologia di
allevamento ittico, che consta sostanzialmente di 3 differenti modalità.
Il sistema delle GABBIE tenute in mare aperto,
come si può facilmente intuire, comporta un prodotto migliore in termini di
qualità per la salubrità dell’ambiente in cui vive il pesce,
essendo meno affollate e comportando un maggior ricambio d’acqua: il pesce necessita pertanto di meno antibiotici, anche in termini di minore
frequenza della somministrazione.
Il sistema a VALLE, stagni naturali e
acque salmastre localizzate in genere nei pressi delle foci dei fiumi,
resta un ambiente pressoché naturale, anche se meno salubre del precedente, con una maggior concentrazione di pescato e quindi una minor disponibilità di spazio e, soprattutto, un minor ricambio di acqua: il che
si traduce in più antibiotici rispetto al pesce allevato dentro gabbie in mare aperto. Sono allevate con questa modalità, per lo più, orate,
spigole, anguille e cefali.
Quello delle VASCHE ARTIFICIALI in cemento, come si può
intuire, di naturale ha poco, messa a parte la maggior concentrazione
degli elementi, in un ambiente più ristretto come spazi e con un
ancor minore ricambio d’acqua: rappresenta certo la condizione peggiore
di ambiente per il pesce, che necessita quindi di più antibiotici, ovvero distribuzione più frequente.
Da quanto detto si può facilmente evincere come la discriminante per la valutazione della
qualità del pesce d’allevamento non sia, come erroneamente molti usano credere,
la sua provenienza, ma il metodo con cui viene allevato.
Se le produzioni più pregiate sono normalmente nazionali questo dipende dal fatto che, di solito, vengono acquistate
dall’estero le derrate vendute a minor prezzo, evidentemente perché condotte
con metodo di allevamento meno costoso ma anche meno salubre. Quando si parla di allevamento italiano si fa riferimento
prevalentemente a Lavagna in Liguria, all’Argentario o alla Capraia in Toscana,
al Lazio, alla Sardegna e alla Puglia.
In genere, si deduce che il pesce allevato, sia per
l’alimentazione che per le condizioni di vita, è necessariamente più grasso di
quello selvaggio, le cui carni al contrario risultano più sode perché dotate
di maggiore consistenza muscolare, grazie ad alimentazione naturale e maggior motilità.
La data di morte del pesce allevato, tuttavia, a differenza
di quello catturato è certa: restano poi analoghe tutte le ulteriori regole da
seguire per l’etichettatura. Va detto, nondimeno, che in etichetta è obbligatorio
definire se il pesce è allevato oppure selvaggio, ma non altrettanto lo è indicare
di quale tipologia di allevamento si tratti (gabbia, valle o vasca), il che è ciò
che effettivamente fa la differenza...
Non sono tuttavia vietate, ma facoltative, indicazioni supplementari (quindi non obbligatorie) per valorizzare la
qualità di un allevamento superiore in gabbia, il cui relativo prodotto, talvolta,
può costare almeno il doppio del medesimo allevato in vasca.
Occorre aggiungere che non tutti i pesci sono vocati
all’allevamento: orate, branzini, rombi, tonni (pescati in mare e talvolta cresciuti in gabbia qualche mese), anguille e salmoni sopportano
felicemente questa condizione indotta. Non così invece per il dentice e la ricciola, che per misteriosi segreti, tuttora appartenenti a leggi di natura, non
resistono al sistema dell’allevamento: da cui - oltre che per la notoria eccellenza
organolettica – l’implicito pregio. Anche i crostacei non possono essere allevati e anche in
questo caso, per le medesime ragioni, se ne evince la preziosità. I bivalvi, invece, sono prevalentemente allevati, ma non sono
soggetti né ad antibiotico (poiché non patiscono la vita assembrata) né a
mangime (poiché si nutrono filtrando acqua).
Concludendo, se il pesce selvaggio è in tutti i casi più
costoso ma certamente preferibile qualitativamente, va
detto che non tutto il pesce sul mercato può esserlo: per un
concreto (e tangibile) fatto di sostenibilità. D’altra parte è pur vero che la sostenibilità può essere
aumentata non solo ricorrendo al pesce allevato ma, altresì, rispettando la
stagionalità: atteggiamento che, però, ha tuttora poca presa
sul mercato. Bisogna dunque essere consapevoli che chiedere solo orate,
branzini, dentici e ricciole, in tutte le stagioni, impoverisce l’ecosistema: e
a noi, circa questo, spetta l’arduo compito di decidere responsabilmente: sempre
che il pesce stagionale, proposto in alternativa, abbia un prezzo ragionevole. Su quest’ultimo punto, la palla passerebbe forse ad un
avveduto e mirato marketing etico, previdenziale e provvidenziale, da parte del
mercato del pesce… E credo non sarebbe inutile rivolgersi ad esperti di "menu design" come Umberto Curti, che - basandosi anzitutto ma non solo sul food costing - sono talora in grado di trasformare la carta dei cibi in un vero strumento di vendita, più "leggibile", più coerente alle filiere brevi, e più remunerativo... Chissà quanti aneddoti potrebbe raccontarci Umberto circa i controsensi "tafazziani" che in tanti anni gli è capitato di leggere sedendosi al ristorante...
A presto, amici Lettori, e buon pesce a tutti!
Redazione di Genova World
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